11/12/14

UN GALANTUOMO DI ALTRI TEMPI


Ci ho pensato un po’, ci ho dovuto pensare un po’, per scrivere qualche riga, qualche parola che potesse esprimere il mio pensiero, il mio ricordo, la mia stima e la mia gratitudine per Pierluigi Tabasso. Un compito difficilissimo se non addirittura impossibile, perché nessuna parola potrà rendere il giusto omaggio ad un uomo così speciale, ad un gentiluomo che se hai avuto la fortuna di incontrare una volta nella tua vita, non lo dimentichi più.
Quando l’ho incontrato io, nel 1991, ero una giornalista sconosciuta con la passione per la musica, per il rock, per l’America e per Bruce Springsteen, sul quale avevo perfino scritto la mia tesi di laurea. Non avevo mai fatto radio in vita mia. Queste erano le mie credenziali, le uniche carte che potessi giocarmi con il Signor Tabasso. Non avevo santi protettori in Rai, non conoscevo nessuno che potesse agevolare il mio ingresso nell’azienda radio-televisiva più importante d’Italia. Figuriamoci se potevo mai pensare di poter condurre la mia trasmissione radiofonica preferita dell’epoca, “RaiStereoNotte”. Attraverso quel programma avevo conosciuto tanta musica, tante canzoni, tante voci, tanta roba. Avevo imparato ad apprezzare generi musicali talmente distanti dalla mia formazione che mai avrei creduto avessero potuto conquistarmi. Sarà stato il fascino della notte o la bravura dei conduttori che si alternavano a quel microfono. In realtà una persona che apparteneva a quel mondo la conoscevo: Maurizio Iorio, springsteeniano anche lui e tra i conduttori di RaiStereoNotte. Fu lui a suggerirmi di inviare una lettera a Tabasso che si rammaricava sempre del fatto che non ci fossero voci femminili in quel programma. Io dissi a Maurizio “Ma se non ho mai fatto radio, nemmeno quella di quartiere, se non conosco nessuno in Rai, ma come possono prendere me?”. Lui mi rispose “Tu scrivigli perché Tabasso detesta i raccomandati e anzi quando gli segnalano qualcuno è proprio il momento che non lo prende”. Io scrissi una lettera che tenni per un anno intero nella mia agenda, fino a che Maurizio non tornò a Roma per una nuova sestina di Stereonotte. E solo a quel punto, dopo un nuovo invito a spedirla quella benedetta lettera, presi una delle decisioni più belle e importanti della mia vita. Dopo una settimana esatta, un signore mi telefonò a casa e mi disse “Sono Pierluigi Tabasso ho letto la sua lettera e vorrei incontrarla”. Quando entrai nel suo ufficio mi tremavano le gambe ma lui con il suo garbo, la sua gentilezza e la sua infinita educazione mi mise subito a mio agio chiedendomi di darci del tu. Mi fece parlare un po’, rassicurandomi sul fatto che non avessi mai fatto radio in vita mia. “Non ti preoccupare, non conta quello, per quello ci sono i tecnici, è importante quello che hai da dire”.  Aggiunse che mi avrebbe telefonato presto per farmi iniziare a febbraio del 1992, e fu di parola.  Non potevo crederci! Era come pubblicare un romanzo con Rizzoli senza aver mai scritto una riga oltre al tema della maturità, o salire sul palco con Springsteen come corista dopo aver cantato solo alle scuole elementari al saggio di fine anno, o come debuttare in serie A con la Juventus dopo aver giocato solo sulla spiaggia con gli amici.  Furono quattro mesi indimenticabili per me durante i quali incontrai colleghi meravigliosi, tecnici e registi fantastici, ma soprattutto ebbi modo di conoscere un uomo straordinario come Pierluigi Tabasso. Da lui imparai che la calma e la gentilezza sono le migliori doti per gestire qualsiasi situazione. Che la competenza e la preparazione fanno la professionalità. Che la presunzione non porta da nessuna parte. Che la millanteria viene sempre scoperta, prima o poi.  Tabasso mi chiamò di nuovo nel 1994, per una nuova sestina da febbraio a giugno, e nonostante il ’94 sia stato il peggior anno della mia vita, quei quattro mesi rimangono tra i ricordi più belli e indelebili nella mia memoria. Non potrò mai dimenticare le sveglie alle 2.15 per il turno dalle 3 alle 4.30, le colazioni alla fine del turno 4.30-6.00, prima di rimettermi a dormire per quell’ora e mezza che mi consentiva di andare in redazione con qualche energia in più, le stranezze delle trasmissioni quando scattava l’ora legale. Così come non potrò mai dimenticare gli studi di Via Po, quelli di Via Asiago, quelli di via del Babuino (dove oggi c’è l’Hotel de Russie) e quelli di Saxa Rubra. Ma soprattutto non potrò mai dimenticare la saggezza e la classe di Pierluigi Tabasso, un galantuomo davvero di altri tempi, e la sua lungimiranza che gli fece capire – decenni prima di tutti gli altri – che la notte ha un fascino tutto suo e che se la riempi di musica di qualità e di chiacchiere a farti compagnia salvi la vita a tante persone. Esattamente come fa il rock’n’roll.
Per tutto questo (e molto altro ancora), grazie a Pierluigi Tabasso.



01/12/14

LA SINTESI PERFETTA DELLA MUSICA ITALIANA, OVVERO LA CHIUSURA DEL CERCHIO

Avevo 12 anni quando uscì “Alice”, una canzone e un disco che mi fecero innamorare di quel ragazzo alto coi capelli lunghi e rossi, e della musica italiana che non era più solo e necessariamente quella in cui cuore doveva fare rima con amore. Era il 1973. Da quel giorno ho comprato tutti gli album di Francesco De Gregori nel giorno esatto di uscita, conoscevo tutti i cantautori italiani, ascoltavo Radio Blu (un radio “libera” di Roma) dove il sabato pomeriggio c’era un’intera trasmissione dedicata a quel nuovo “fenomeno musicale” (oggi si chiamerebbe così), condotta da un ragazzetto che più tardi avrei conosciuto e che oggi è uno dei nomi più importanti del giornalismo musicale in Italia: Ernesto Assante.
Di Francesco De Gregori amavo soprattutto tre canzoni: “Alice”, appunto, “Bene” e “Atlantide”.
Decisi in quegli anni di musica, di canzoni, di parole messe insieme in maniera assolutamente inconsueta rispetto a quello che si era ascoltato fino a quel momento nel nostro paese a livello pop, che la musica e la scrittura avrebbero fatto parte in qualche modo del mio futuro lavorativo.  Ascoltare una canzone di Francesco De Gregori era come leggere una poesia ermetica o guardare un film surrealista o trovarsi di fronte a un quadro dadaista.
Quando anni dopo divenni giornalista promisi a me stessa che il giorno in cui avessi intervistato Francesco De Gregori, Bruce Springsteen, e fossi diventata direttore di un giornale, avrei smesso di fare questo mestiere e sarei passata ad altro. Direttore lo sono diventata, ma continuo a fare la giornalista, quindi non ho intervistato né Francesco De Gregori, né tantomeno Bruce Springsteen.
De Gregori è sempre stato il mio artista preferito in assoluto della musica italiana, esattamente come Bruce Springsteen lo è della musica internazionale. Su Springsteen ci ho fatto la tesi di laurea, su De Gregori nemmeno un articolo, né un incontro, né tantomeno un’intervista.   E alla fine, sono contenta perché  dai racconti sentiti, da aneddoti raccontati da colleghi e amici, da quella sua infinita cultura che trapela anche solo dal modo in cui si veste, ho sempre pensato “E se poi non è come l’ho sempre immaginato nel corso di tutti questi anni?”, mi crollerebbe un mito – sicuramente -  quindi meglio non incontrarlo. Su Bruce invece nutro ancora,  sempre, la speranza, anche se poi a uno come Springsteen, cosa gli puoi chiedere?
Ma a parte questa breve digressione sul Boss, che quando parli di grande musica c’entra sempre, il mio innamoramento totale e incondizionato per De Gregori si è incrinato solo nel 1990, quando è  comparso sulla scena musicale un altro Artista con la A maiuscola, totalmente diverso da lui: Luciano Ligabue, anzi, all’epoca semplicemente Ligabue. Era uno della mia generazione, cresciuto con la stessa musica, le stesse, parole, le stesse canzoni, gli stessi cantautori con cui ero cresciuta io, solo che anziché ascoltarle in una città grande come Roma, le  aveva vissute nella provincia emiliana. E poi la sua musica, i suoi pezzi  “suonavano” tanto come quelli di Springsteen.  Le storie che raccontava erano quelle lì, solo che invece di essere ambientate nel New Jersey, si svolgevano in piena pianura padana tra Reggio Emilia e Modena.  Anche di lui mi sono innamorata, delle sue “Balliamo sul mondo”, “Angelo della nebbia”, delle sue “Anime in plexiglass”, di “Certe notti” del suo “Urlando contro il cielo” e di tanto altro ancora. Luciano l’ho conosciuto da vicino. Su di lui, e con lui, ho scritto due libri e ho avuto la possibilità di scoprire una persona incredibilmente bella, un uomo di spessore e di grande sensibilità. Una volta parlammo anche di De Gregori e di quanto fossimo cresciuti noi  e quelli della nostra generazione con certe sue canzoni.
Ecco, sentire a distanza di così tanti anni “Alice” cantata in duetto da Francesco De Gregori e Ligabue non solo mi ha fatto venire i brividi, ma mi è sembrata una sorta di sintesi perfetta del mio concetto di musica italiana, una specie di chiusura del cerchio, come se due fasi della mia vita, l’adolescenza con tutti i suoi sogni, gli ideali e le speranze,  si fosse saldata con la gioventù e la maturità, con le disillusioni e i dolori ma anche i  nuovi obiettivi e i nuovi orizzonti.
E quando ieri sera, dopo aver di nuovo ascoltato “Alice” dal vivo cantata in coppia da De Gregori e Ligabue, insieme hanno attaccato “Atlantide” non ho potuto fare a meno di versare qualche lacrima: un cerchio si è chiuso, se n’è aperto un altro e chissà che in futuro questi due non possano fare qualcosa con il più grande di tutti i tempi. Sì, ovviamente Bruce.
Sognare non costa nulla, ma ti apre il cuore e la mente.