26/01/10

BACIAMI ANCORA, un'occasione sprecata



Con Stefano Accorsi, Vittoria Puccini, Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria, Sabrina Impacciatore, Giorgio Pasotti, Marco Cocci, Daniela Piazza, Adriano Giannini, Valeri Bruni Tedeschi, Primo Reggiani

Imbarazzante. Ci sono voluti 10 anni, di cui 5 passati negli USA (a Hollywood), e 3 film di successo nazionale ("RIcordati di me") e internazionale ("La ricerca della felicità" e "Sette anime") per confezionare un film tanto patinato quanto inutile.
Inutile perché pur essendo uno dei sequel più attesi ("L'ultimo bacio" è stato uno dei film più amati e più visti degli ultimi 10 anni), il film è un susseguirsi di banalità e di situazioni scontate, con dialoghi francamente imbarazzanti ("non era la persona che pensavo che fosse", tanto per citarne uno), ambientato in una Roma inesistente e impensabile: quando ad esempio Paolo (Claudio Santamaria), Adriano (Giorgio Pasotti) e Alberto (Marco Cocci) si confrontano duramente in Piazza della Consolazione (per chi non è romano, una piazza a ridosso del Foro Romano, proprio sotto al Campidoglio, pèraticamente al centro del centro di Roma) la piazza, quella piazza, è talmente vuota, da risultare totalmente irreale e quindi come se fosse stata ricostruita negli studi di Cinecittà. Non c'è neanche un motorino, per intenderci.
Sicuramente "Baciami ancora" avrà grandissimo successo al botteghino ma resta un film - a mio modestissimo parere - mediocre. L'idea di base ci sarebbe pure, ovvero il dare una seconda possibilità a tutti, perché tutti hanno diritto di rimediare ai propri errori e tutti hanno diritto a ricostruirsi una vita. Il messaggio è chiaro: a chi viene data questa seconda possibilità si salva, a chi viene negata (anche in buonafede) si perde. Il tutto però viene banalizzato e reso inutile. "Baciami ancora", presentato come "la storia di tutte le storie d'amore" alla fine è una storiella di tradimenti e di ripensamenti nella quale spiccano le interpretazioni di Pierfrancesco Favino e Sabrina Impacciatore (entrambi bravissimi) e dove si perdono invece le interpretazioni di altri bravi attori. Impensabile e impietoso paragonare Vittoria Puccini a Giovanna Mezzogiorno: tanto una (la Mezzogiorno) appariva reale e concreta nella sua sofferenza, tanto l'altra (la Puccini) appare artefatta nel suo tormento, al punto da risultare poco credibile. Così come risultano poco credibili gli incontri tra il bambino e un padre che non ha mai conosciuto (chi lascerebbe andare per 4 ore il proprio figlio di 10 anni con un uomo che pur essendo il padre non lo ha mai chiamato e che - oltretutto - lo si ritiene un fallito e il responsabile di una serie di problemi ancora irrisolti?), o l'incontro con la bella sconosciuta che s'invaghisce a prima vista del tormentato Adriano. Sì, il cinema è finzione, ma anche specchio della realtà. Credo.
Il ritratto che Muccino fa della sua generazione è un ritratto spietato: i quarantenni italiani di oggi sono pieni di problemi, non sanno relazionarsi, sono nevrotici, insicuri, immaturi e anche un po' cinici. Magari sono realizzati professionalmente (almeno alcuni di quelli di cui parla il regista romano) ma dal punto di vista umano fanno acqua da tutte le parti. Proprio come il film, che rimane un esercizio di stile (la regia non è malissimo e i caratteri sono ben delineati anch eperchésono recuperati dal film precedente) ma non tocca le corde giuste, non va oltre la bella fotografia, la bella inquadratura. Forse piacerà a Hollywood dove hanno preso a cuore Gabriele Muccino e dove in genere i film stranieri rappresentano una sorta di cartina di tornasole per conoscere società e paesi lontani. Ma qui l'immagine che si dà dell'Italia contemporanea è talmente patinata da risultare irreale. Un'occasione sprecata per il cinema italiano, per il nuovo cinema italiano che andrebbe sostenuto non soltanto a livello economico ma anche con film più appassionanti e storie meno banali. Anche la scena finale con l'idealista del gruppo, Alberto, eterno adolescente che non rinuncia ai suoi sogni e vola in Brasile ritrovandosi fra gli indigeni che lavano i panni sulla pietra, si commenta da sola. E alla fine la cosa più bella che rimane del film è l'omonima canzone di Jovanotti che accompagna i titoli di coda...

14/01/10

NINE: esaltazione e omaggio al genio italiano


NINE di Rob Marshall
Con Daniel Day-Lewis, Nicole Kidman, Penelope Cruz, Sophia Loren, Marion Cotillard, Judi Dench, Kate Hudson, Fergie


Bello, bello, bello: questo è proprio un film che appena finito ti vien voglia di rivederlo subito. E’ vivace, moderno, nuovo, innovativo pur essendo ambientato e pur parlando degli anni ’60. E’ pieno di colori, di musica, di canzoni, di cambi di scena e di scene che si sovrappongono l’una sull’altra. Esaltazione e omaggio al genio, allo stile e al fascino italiano, ovvero esaltazione e omaggio a Federico Fellini, e alla sua visione onirica del cinema e della realtà. Ma anche ritratto impietoso dell’uomo italiano. Geniale sì (molto pochi peraltro) ma anche perennemente vittime delle proprie madri, irrecuperabili bugiardi, impenitenti donnaioli, eternamente bambini, fondamentalmente insicuri. Non fa eccezione Guido Contini, il protagonista interpretato da uno splendido Daniel Day-Lewis, regista cinematografico alle prese con una crisi d’ispirazione e conseguente crisi matrimoniale. Ma al di là della storia il film è un tripudio di immagini e di musica (scritta da Andrea Guerra), di donne bellissime, affascinanti, fatali, ognuna a modo suo, anche la prostituta Saraghina (interpretata da Fergie la cantante dei Black Eyed Peas) che insegna i primi rudimenti erotici al piccolo Guido.
Tutte le donne si innamorano di lui e lui ricambia questo amore incondizionato, con incondizionata infedeltà. Su tutte veglia e sorveglia la mamma scomparsa (ovviamente Sophia Loren) ma sempre presente. Straordinari gli attori a cominciare dal già citato Day-Lewis: carisma, fascino e bellezza a profusione e quel pizzico di ostentata fragilità che fa sciogliere l’universo femminile, anche se poi nella vita reale Daniel non ha risparmiato colpi ferali alle sue donne (basti ricordare la fine della storia con Isabelle Adjani comunicata – si narra – a mezzo fax). Parlando delle attrici, sono tutte perfette nel loro ruolo, in un cast che sembra la nazionale di Hollywood: Nicole Kidman, algida e statuaria (la preferita), Penelope Cruz, istintiva e selvaggia (l’amante), Marion Cotillard, discreta e riservata (la moglie), Judi Dench, determinata e all’occorrenza impietosa (la costumista amica fidata), Kate Hudson, prorompente e sicura di sé (la giornalista di Vogue), Sophia Loren, saggia e ieratica (la madre), icona quest’ultima non soltanto del cinema italiano in America e nel mondo, ma anche della italica femminilità soprattutto nell’immaginario collettivo made in USA. Insomma, la presenza di Sophia Loren in questo film sembra quasi un sigillo, un marchio di garanzia sul film stesso, Del resto chi meglio della Loren poteva recitare questo ruolo? Le attrici di “Nine” sono però tutte bellissime e tutte bravissime anche nel cantare e nel ballare. In Italia sarebbe impensabile, ed evidentemente è impossibile, mettere insieme nello stesso film tante primedonne. E poi ci sono gli italiani, perché “Nine”, va detto, è tutto girato in Italia. In veste di eccellenti comprimari compaiono man mano Valerio Mastandrea nei panni del concierge di un Grand Hotel, Elio Germano, assistente preciso e puntuale del regista, Ricky Tognazzi, il produttore che impazzisce dietro alle fughe di Contini, Giuseppe Cederna, segretario di Tognazzi, Martina Stella, amante del produttore che diventa – ovviamente – attrice, Monica Scattini, sciatta proprietaria di una squallida pensioncina, Remo Remotti, inimmaginabile (fino a oggi) cardinale, Roberto Citran, medico moralista. Tutti a recitare in un inglese impeccabile e sorprendente. Fondamentale vedere il film in lingua originale, magari avvalendosi dei sotttotitoli, perché è bellissimo seguire i continui passaggi dall’inglese all’italiano, e anche ascoltare i nostri attori che recitano in inglese ma soprattutto sentire Daniel Day Lewis che per interpretare la parte del regista italiano parla (lui britannico al 100%) con uno spiccato accento nostrano. Anche questo è l’ennesimo segno della grandissima professionalità degli attori stranieri. Ma questa volta anche i nostri fanno una bella figura.

13/01/10

L'Italia piccola, provinciale e ripiegata su se stessa


LA PRIMA COSA BELLA di Paolo Virzì
Con Stefania Sandrelli, Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi, Micaela Ramazzotti, Marco Messeri

Bravissimi gli attori, tutti. A cominciare da una sorprendente Micaela Ramazzotti, eccellente nell’interpretare la classica bellona della provincia italiana, totalmente devota ai suoi “bimbi belli” e al marito violento (che non esita però a lasciare per inseguire il suo pezzetto di sogno), impacciata e rispettosa, ingenua e passionale al tempo stesso. E poi c’è un’altrettanto brava Stefania Sandrelli, ovvero Micaela in età matura, alle prese col male più brutto e più comune della terra e impegnata suo malgrado a fare i conti col suo passato e con la sua vita. E ancora Valerio Mastandrea e Claudia Pandolfi, fratelli nel film, perfetti nei loro rispettivi ruoli. Il primo, professore d’italiano pieno di turbe, di insoddisfazioni e di ansie, che fugge a Milano pur di dimenticare, provarci almeno, il suo passato, la seconda, piena di paure, di ricordi e di senso del dovere. Anche lei, sufficientemente insoddisfatta. “La prima cosa bella”, il nuovo film diretto da Paolo Virzì ruota tutto intorno ai ricordi, alle ansie, alle turbe, alle insoddisfazioni e ai doveri dei vari protagonisti. E’ un film di rinunce, di sacrifici, di frustrazioni, di cose non dette e di altre appena sussurrate, di gelosie malvissute e mai superate, di piccole invidie e di grandi rancori. E’ il ritratto dell’Italia degli anni ’60, quella però della piccola provincia che si contrapponeva a quella della Dolce Vita romana. Dolce Vita che inevitabilmente entra nel film con la citazione di uno dei film più celebri di Dino Risi (“La moglie del prete”, girato proprio a Castiglioncello in quegli anni) che Virzì riprende e utilizza in scena per rendere vivo il sogno di Anna, ovvero quello di fare il cinema anche come semplice figurante. E’ l’Italia delle canzonette piene di parole d’amore e di speranza, e non a caso il film s’intitola come una delle canzoni di maggior successo dell’epoca. Allora la cantava Nicola Di Bari, che l’ha anche scritta, oggi la intepreta Malika Ayane con la sua voce suadente e raffinata.
E’ soprattutto un film che racconta la storia di una famiglia, di una madre che lotta contro tutto e contro tutti, ma soprattutto contro la vita e contro la morte, per difendere i suoi figli, per crescerli e vederli felici, intuendo lei per prima (nonostante la sua semplicità) i disagi di quei due bambini un po’ chiusi e introversi diventati nel frattempo due adulti frustrati. Che si libereranno delle loro ansie e delle loro frustrazioni solo quando la mamma li lascerà per sempre. Solo allora avranno la forza e lo stimolo per lasciarsi andare, ognuno verso la propria felicità. Facendo anche scelte spiazzanti. Il film è una sorta di ode alla mamma italiana, da sempre pilastro della famiglia, elemento portante e aggregante. Un’ode che diventa inno quando la malattia prende il sopravvento e riunisce tutti sotto lo stesso tetto, lo stesso peraltro dell’inizio del film. Cupo e malinconico proprio come il suo protagonista maschile (Bruno, alias Mastandrea), il film è a tratti commovente, a tratti lento, a tratti anche un po’ noioso. E’ un salto nel passato, un confronto col presente, una storia autentica che pesca forse nel biografico del regista, forse nelle storie dei suoi amici. Non fosse altro che per l’ambientazione (Livorno città natale di Virzì) e per la cadenza toscana che tutti gli interpreti hanno. E se non stupiscono la Sandrelli e Marco Messeri che da quelle parti ci sono nati, sorprendono Micaela Ramazzotti, Claudia Pandolfi e Valerio Mastandrea che da romani d.o.c. parlano con un perfetto accento livornese. Una piccola rivincita di Mastandrea che più di una volta in passato ha detto: “Se poi la smettessero di farmi recitare solo in romanesco qualcuno si accorgerebbe che so e posso fare anche altri ruoli...”
Peccato che in un’Italia sempre piu piccola, provinciale e ripiegata su se stessa, anche Virzì si metta a fare film piccoli, provinciali e ripiegati su se stessi.

08/01/10

Il fascino rassicurante e rasserenante di Mr. Gere



Quando vai a vedere un film con Richard Gere metti in preventivo che forse non vedrai un capolavoro, o uno di quei film che fanno in qualche modo la storia del cinema, ma sai per certo che trascorrerai due ore in totale rilassatezza, in una sorta di stato di beatitudine che ti rasserena e ti predispone meglio nei confronti degli altri. E questo grazie non tanto alle storie raccontate, quanto per la presenza di Mr. Gere, che non a caso – forse – da qualche anno è buddista. Il fascino di Richard Gere (che aumenta con gli anni) è qualcosa che ti avvolge completamente e ti rassicura al tempo stesso. Il nuovo film “Hachiko”, diretto da Lasse Hallström, non fa eccezione. La storia è commovente, il cane (uno splendido Akita) è meraviglioso, i caratteri degli altri personaggi ottimamente delineati, i colori sono bellissimi e la fotografia è a tratti spettacolare, con continui passaggi di prospettiva e colore: il cane vede in bianco e nero e da una prospettiva decisamente diversa da quella umana. E poi c’è lui, Mr. Gere, che si erge sullo schermo. Sì, possiamo anche dire che fa sempre la stessa parte (come sostengono i suoi detrattori) ma in realtà è la sua personalità carismatica a delineare i personaggi che interpreta. Sono i suoi capelli sempre più bianchi a renderlo sempre più credibile. Per questo quando per ragioni di copione è costretto a recitare con i capelli tinti (come nel caso di “Amelia”, altro film di uscita imminente) risulta meno incisivo.
“Hachiko” è una storia di fedeltà, di quella fedeltà che né un uomo né una donna ti sanno dare, quella fedeltà totale e immutabile nel corso del tempo che solo un cane può regalarti.
L'essenza del film è tutta qui, nel concetto di fedeltà incondizionata che il cane dà all'uomo, nel senso di caducità che accompagna la vita, e nella presenza rassicurante e rasserenante di Mr. Gere. Lui da solo vale il prezzo del biglietto. E sono sicura che uscendo dal cinema molte persone decideranno di prendersi un cane. Non necessariamente un Akita o un altro cane di razza, basta un randagio. Il cuore di un cane, molto spesso, è più grande di quello di un uomo.