30/03/07

Raoul Bova: Io l'altro


Da attore "solo" bello e muscoloso, Raoul Bova si è trasformato in attore "vero". Soprattutto da quando si è trasferito a Los Angeles, considerandola un’opportunità di crescita professionale e umana da non perdere. Lo raggiungo nella sua casa in California alla vigilia dell’uscita di Io, l’altro, storia di un’amicizia fraterna che si trasforma in un gioco al massacro, fatto di diffidenza, sospetti, equivoci e malintesi.
Come nasce l’idea di questo film?
Dal mio desiderio interiore e dalla mia voglia di urlare contro tutto ciò che sta succedendo nel mondo, contro la guerra, contro la politica sbagliata, contro tutte le persone che hanno creato questo stato di cose. Io, l’altro è la storia di due persone umili, vittime anche loro della guerra, ma è anche il risultato di ciò che questo conflitto ha prodotto nella nostra società. Giuseppe e Yousouf rappresentano l’emblema di due fratelli che finiscono per odiarsi in virtù della guerra e di ciò che viene trasmesso dai mass media. Non a caso il terzo protagonista del film è la radio che i due hanno sulla barca e che racconta loro ciò che sta accadendo nel mondo, in maniera spesso fuorviante. Soprattutto dopo l’attentato di Madrid (11 marzo 2004, n.d.a.), per l’omonimia di Yousuf con uno degli attentatori, la diffidenza e i sospetti tra loro crescono a dismisura fino a diventare devastanti.
Il film è stato presentato prima negli Stati Uniti, quali sono state le reazioni?
Molti arabi ci hanno ringraziato per averli rappresentati come un popolo e non esclusivamente come terroristi. Ci dicevano che in America non hanno più amici, e le persone che conoscono ora, quando scoprono che sono arabi chiudono i rapporti con loro.
Gli americani si rendono conto di questa situazione?
Guarda, è come un virus sotterraneo che mina tutta la società, apparentemente è tutto normale e va tutto bene, poi ti rendi conto di come sia pilotata l’informazione negli USA: io sono rimasto sconcertato, ne sappiamo molto più noi in Italia di quello che succede in America che loro che ci vivono. Stando qui ti rendi conto che chi decide di fare la guerra e di mandare a morire così tanti ragazzi riesce a manipolare anche l’informazione e quindi le menti della gente. Certo, grazie a internet sanno anche che c’è un’altra informazione ma non sono tanti quelli che decidono, o che hanno il tempo e le possibilità, di mettersi a navigare in cerca di un altro tipo di informazione. Vivono una situazione di emarginazione che a loro sembra del tutto normale.
Da italiano come vivi questo stato di cose?
Sono sconcertato: qualche giorno fa ero con mio figlio in una sala di videogames e mentre quando noi eravamo piccoli sparavi ai mostri, adesso i nemici sono gli arabi! E questo è ancora più agghiacciante se pensi che tutti i drammi che ci sono stati fino ad ora, tutto l’odio razziale, tutte le stragi non sono servite a nulla. Fino a che gli americani non capiranno che gli arabi vanno considerati come un popolo fatto di tanta gente che crede nella pace e nei nostri stessi valori, e non vanno confusi con il terrorismo, difficile che la situazione nel mondo cambi.
Ci sono americani che lo capiscono?
Quelli che hanno un certo livello intellettuale e culturale e si creano un’identità politica riescono a scindere le due cose, però il problema sta nelle persone umili, come sono i due protagonisti di Io, l’altro, che vivono in uno stato di semi-povertà; Giuseppe e Yousuf sono due pescatori che sentono solo le notizie che passa la radio e come le trasmette.
Il film La finestra di fronte di Ozpetek è stato un po’ lo spartiacque della tua carriera? Fino a quel momento facevi solo film d’azione, lì invece eri un bancario timido, impacciato e problematico...
Forse per la prima volta un regista ha visto in me delle potenzialità diverse, spesso i produttori (e i registi stessi) ti vedono solo in una parte. Però se non sei un divo affermato non puoi permetterti di rifiutare troppe cose. Sicuramente La finestra di fronte (ma anche La fiamma sul ghiaccio di Umberto Marino) mi hanno fatto venire voglia di fare anche altre cose.
È difficile vivere negli Stati Uniti, mecca del cinema, da attore italiano?
Ogni situazione è difficile perché racchiude in sé tante potenzialità diverse. Però se credi in qualcosa e vuoi raggiungere il tuo obiettivo, devi andare a cercare dove ti sembra che ci siano le condizioni migliori per te. Se credi in te stesso e nel tuo mestiere, è un momento di crescita, un miglioramento umano, civile e artistico assolutamente fondamentale.
Cosa rappresenta per te l’America?
Un ampliamento di vedute. Qui ci sono più opportunità magari più piccole ma tantissime. C’è un cinema indipendente di grande qualità e spessore, non solo Hollywood. È come mettere un soldo in una slot machine: gli USA ti danno questo soldo, la possibilità di giocare e vedere se vinci.
È valsa la pena quindi andare a L.A.?
Tutto nella vita vale la pena, nel bene e nel male.
Come è visto il nuovo cinema italiano?
I produttori che pensano solo al box office non ci considerano affatto, però molti altri indipendenti hanno grande considerazione di noi, stimano molto la nostra nuova cinematografia perché è fatta di sentimenti.
Cosa stai facendo in USA?
Ho girato una fiction diretta e prodotta da Ridley e Tony Scott con Chris O’Donnell, Alfred Molina, Michael Keaton. Parla della CIA e nell’episodio in cui recito, sono il capo delle truppe cubane che combattono contro Fidel Castro durante la crisi della Baia dei Porci (1962, n.d.a.).
Tornando a Io, l’altro, quanto ci punti?
Tanto, perché rispecchia il mio modo di pensare, i valori in cui credo e che cerco di trasmettere ai miei due figli. È un film piccolo, a basso costo, che abbiamo girato in quattro settimane spendendo 700.000 euro. Però è un film vero che affronta temi interessanti, e questo è il cinema che mi piacerebbe fare. Senza però disdegnare quello d’intrattenimento e di genere.
(marzo 2007)

05/03/07

Andrew Howe: ll predestinato


Vigna di Valle è a 50 km da Roma, sulle rive del Lago di Bracciano dove regna una quiete e una pace quasi irreali. Qui si trova il Centro Sportivo dell’Aeronautica, con un campo di atletica che non ha nulla da invidiare al prato e alla pista dell’Olimpico. E’ qui che si allena Andrew Howe, campione d’Europa di salto in lungo a Birmingham con il record italiano di m. 8,30, speranza dell’atletica azzurra, prossimo protagonista ai Mondiali di Osaka in programma ad agosto. Andrew è un ragazzo semplice, sorridente, tranquillo (ma solo all’apparenza) che in gara (e su un palco) tira fuori tutta la sua incommensurabile energia. E con tre caratteristiche fuori dal comune: una mamma (René Felton, atleta anche lei) che lo allena, un’intolleranza verso l’America e gli americani e una passione sfrenata per la musica rock.
Perché pur essendo nato a Los Angeles e vissuto lì per i primi 5 anni della tua vita, non sopporti gli Stati Uniti?

Ma è più facile essere allenati da mamma?
Per certi aspetti è abbastanza difficile però alla fine è meglio così perché nessuno mi conosce come lei.
Sei nato a Los Angeles e cresciuto a Rieti, perché hai scelto di diventare italiano?
Più che altro perché mamma mi ha portato qua da bambino, sono cresciuto qua e mi sembrava normale scegliere l’Italia. Non mi sento per niente americano, non ho niente dell’America.
Mai avuto rimpianti per non aver scelto la nazionale USA?
Mai, assolutamente, anche perché non facevo parte di loro, non ragionavo come ragionano loro. Certo, in alcuni casi è normale che esca fuori l’americano in me, però alla fine cerco di reprimerlo molto perché non mi piace.
Non ti identifichi nell’americano?
Assolutamente,non mi piace proprio.
Quindi non hai mai pensato neanche per un attimo di lasciare l’Italia e tornare lì?
Mai, per carità!
Qual è la cosa che ti piace meno dell’essere americano?
Secondo me sono troppo inquadrati su ogni singola cosa, e poi se la tirano tantissimo, pensano sempre di avere tutto che sono i migliori invece non hanno né più né meno di quello che abbiamo noi. Della storia che abbiamo noi loro non hanno neanche la metà, anzi non ce l’hanno proprio. poi il mangiare non ne parliamo.
Tuo padre è americano e vive negli USA, ogni tanto ci vai quindi in America a trovarlo?
L’anno scorso ci sono andato una volta, ma perché dovevo fare la preparazione in un posto caldo e Los Angeles è il posto che conosco meglio quindi sono andato là, ma mio padre sono sette anni che non lo vedo, non vado mai per lui.
Tu hai un nonno putativo – se così possiamo dire – che è Tommy Smith, atleta di colore divenuto celebre per aver salutato sul podio delle Olimpiadi in Messico del 1968 la folla con il pugno alzato e il guanto nero (il saluto a sostegno del movimento denominato Olympic Project for Human Rights (Progetto Olimpico per i Diritti Umani), nda), e di recente anche tu salendo sul podio hai salutato così, perché?
Be’ lui è stato veramente una specie di nonno per me, è stato sempre vicino a mia madre (che si allenava con lui) nel momento della malattia, a me mi ha visto crescere, mi ha tenuto in braccio da piccolo e quindi mi sembrava un saluto e un omaggio dovuto a lui che dopo quel gesto ha avuto un sacco di problemi, non ha avuto lavoro per più di vent’anni per quel saluto. Un saluto che ogni singolo americano avrebbe dovuto fare e che invece solo lui e John Carlos (arrivato terzo in quella finale) hanno avuto il coraggio di fare. Perché ci voleva davvero coraggio a fare quel saluto nel ’68 dopo la morte di Martin Luther King e tutto quello che succedeva in Vietnam. Ha lavorato per quasi 10 anni come bidello poi l’hanno preso come sotto-sotto allenatore a Santa Monica
Come padre putativo invece hai avuto Carl Lewis, che ha detto che tu supererai il limite dei 9 metri nel salto in lungo...
Sì, lo ha detto quando avevo tre anni, prendendomi in braccio e alzandomi verso il cielo ma come si fa coi bambini quando ci giochi. Questa cosa poi ha fatto il giro del mondo.
Da lì però ti chiamano il predestinato?
Diciamo che mi ci chiamano da quando ho fatto 7,52 a 15 anni, nel 2000 a Fano, che è stato il salto più lungo nel mondo di un ragazzo di quell’età, record che resiste ancora oggi.
Ma tu ti senti un predestinato?
No, preferisco essere più concreto che predestinato.
Perché hai scelto l’Aeronautica per allenarti?
Più che altro perché io volo quindi – scherzosamente – siamo lì. Innanzitutto perché mi hanno dato una mano quando non stavo tanto bene, e questo è stato molto importante, poi perché per me è fondamentale allenarmi in un posto molto tranquillo e molto silenzioso e il centro sportivo qui è perfetto perché non ho pressioni addosso, gestiscono tutto quello che arriva da fuori e di un’onda di 5 metri mi fanno arrivare una cosa minima.
Ti stai allenando per i Mondiali di agosto in Giappone: come ci si prepara a un appuntamento così importante?
Si lavora tanto tanto tanto. C’è una fase di pesi, una di corsa, adesso ci siamo accorti che correndo sulla pista con le scarpe chiodate toglie un po’ di sensibilità ai piedi quindi mi sono messo a correre scalzo sull’erba, a fare le ripetute dei 100, 200, 300 e 400 sull’erba. La preparazione è difficile, come tutte le cose.
Com’è la tua giornata tipo?
Verso le 9.30 comincio a riscaldarmi, alle 10 inizio a fare esercizi poi dipende da quello che mi dice mamma, però siccome non me lo dice mai quello che devo fare in allenamento, parto da solo.
E’ cambiato il rapporto con tua madre ora che sei Campione d’Europa?
In un certo senso, più che altro è cambiato da quando ha iniziato a farmi da allenatrice, perché ho visto un lato di lei che non avevo mai visto. Quand’ero bambino quando iniziavo a fare gli sìostacoli le ho chiesto aiuto perché non avevo nessuno che mi allenava e lei è venuta al campo a darmi una man. E’ stata grande perché pur essendo stata una campionessa in passato non mi ha mai imposto le cose, sono tuttte partite da me. Lei poi è stata ben felice di farlo.
Quante ore al giorno ti alleni?
Sei.
E quando non ti alleni?
Suono la batteria.
Esiste il doping nell’atletica?
Purtroppo sì. Ho visto tantissimi atleti dopati, per dire una la Atanu un’atleta greca che fa i 100 mt. l’ho vista prima che la prendessero e dopo che l’hanno presa e squalificata due anni per doping. Ne conosco un bel po’ di questi soggetti. Devo dire però che non è così facile capire all’istante.
Ma i risultati in pista si vedono? Perché un ragazzo di sedici anni dovrebbe doparsi?
Il problema è che la gente pensa che ti prendi il doping e vai più forte, invece non è così: ti dopi per allenarti di più e per andare più forte perché il corpo può resistere solo a un certo allenamento, cioè non puoi sovraccaricare il corpo e pensare di fare certe prestazioni perché il corpo si autodistrugge non sa più dove prendere le forse, le proteine, il GH che è un altro ormone, lo steroide quindi servono da altri accumuli e dopandoti gliene dai altri e quindi cresci e di conseguenza lavori più facilmente. Questa è più che altro la situazione. Tante persone pensano che se ti dopi vai più forte, che stai tutto il giorno senza fare niente e poi vai più forte anzi ti devi allenare ancora di più se ti dopi. Quindi è molto più probabile che si dopi una persona che si allena tantissimissimo che una che non si allena per niente.
Cosa pensi prima di saltare?
Dipende dalla situazione in cui sto: se sto in una situazione come in quella di Birmingham, in cui dovevo fare un grosso salto perché ne avevo già falliti due penso solo a prendere e a spaccare quella tavoletta, andare più lontano possibile a scendere e a fare più casino possibile per distruggere la gara agli altri, anche emotivamente. Lo faccio anche perché so che li deconcentro totalmente perché non succede nell’atletica che dopo un salto buono uno faccia tutta ‘sta caciara. Quello che viene dopo o è troppo gasato, pia la pedana, fa un urlo e fa casino oppure si scarica completamente e fa sette metri.
Cosa ti carica di più prima di saltare?
Tante cose che mi passano per la testa. Non sembra ma io sono una persona molto rabbiosa, sono uno che si carica facilmente percé pensa a quello che deve fare. A Birmingham io pensavo che dovevo vincere punto e basta, non avevo il diritto di perdere. Mamma mi ha detto guarda tu vieni qui a vincere perché no puoi essere battuto da persone che non saltano nemmeno la metà di quello che puoi saltare tu.
Quindi salta, fai quello che sai fare tu e vinci sta maledetta gara, prendi sta medaglia.
Arriviamo alla musica, tu sei batterista, hai una grande passione per il rock, hai un tuo gruppo (i Craving) con cui hai già fatto un disco. Potrebbe essere il tuo mestiere quando deciderai di smettere?
Suono da quando avevo 9 anni quindi voglio che diventi una professione dopo che finisco con l’atletica, assolutamente.
Avete già un’etichetta?
Al momento no, questo lo abbiamo registrato completamente noi. Adesso la cosa importante sarebbe trovare un’etichetta che ci porti su. Noi facciamo un punk rock un po’ diverso,
C’è qualche italiano che ti piace?
Be’, io sono molto punk rock e in Italia non c’è nulla del genere. Io ascolto i Sepultura, gli Slipknot, di cui ero un appassionato totale, tutta roba molto pesante.
Quali sono i tuoi gruppi preferiti?
Il top sono i Tool, stanno all’apice, ci stanno i Tool e basta, poi mi sento anche i Deftones, i Korn, quando ero piccoletto ascoltavo i Limp Bizkit, ogni tanto. Ho una caterva di dischi del genere, in macchina ce ne ho 260 a casa poi non ne parliamo.
Li hai mai visti i Tool dal vivo?
Sì a giugno scorso al Palaghiaccio di Marino...
Sei salito sul palco?
Magari!!! Per me era un’emozione talmente forte perché vaneggi talmente tanto sentendo la loro musica, ti prende talmente tanto che quando sono entrato lì dentro è stato proprio bello bello.
Tra l’altro tu potresti utilizzare la tua fama di atleta per salire sul palco...
Per carità di Dio non lo farei mai. Mi massacrerebbero.
Non pensi che magari qualche discografico, potrebbe sfruttare, fiutando il business, la tua fama di atleta di fama mondiale per farti fare un dsco?
Spero proprio di no e sai perché? Perché preferisco farlo da musicista che è molto più bello, poi se siamo bravi andiamo avanti se no facciamo un passo indietro.
Concerti con i Craving?
Adesso abbiamo un mucchio di cose che possiamo portare in giro quindi sicuramente faremo concerti in giro. Poi il mio chitarrista suona anche con gli Undertakers e loro sono molto più grandi di me come età. Quindi contiamo molto sul fatto che qualcuno ci venga a sentire e capisca il genere perché venendo dall’America è un conto, venendo dall’Italia è un altro. In America ci stimano tantissimo e se riusciamo a tirare fuori qualcosa del genere ed esportarlo lì diventa una cosa gigantesca.
Quando trovi il tempo per suonare?
Suono il venerdi, il sabato e la domenica a Rieti nella saletta nostra. Poi ho anche un posto qui per suonare quando finisco gli allenamenti anche se sono molo stanco.
Scrivi anche i testi e/o la musica?
Un po’ sì,un po’ no. Li scriviamo insieme.
Come partecipi al processo di produzione?
Il chitarrista (Stefano Casania) fa un riff e veine fuori quello che viene fuori, ci viene istintivo poi fare una canzone. Se ci metti in una stanza er una giornata intera ti facciamo venti canzoni. Poi c’è il bassista che è Lucio Faraglia.
E’ vero che ti piacerebbe suonare in un centro sociale?
Certo, quello è un posto genuino. Il sogno mio è quello di suonare un giorno di fronte e a migliaia e migliaia di persone, suonare in un posto piccolo penso che tocchi di più il cuore della gente, è molto più bello e convolgente, le persone stanno lì e le vedi in faccia.
A cosa non rinunceresti mai nella vita?
Il mangiare, io sono uno che mangia tanto tanto tanto, mi piace moltissimo l’amatriciana e a volte mangio solo quella. Poi penso la batteria, sicuramente.
Il sacrificio più grande che hai fatto finora?
Penso ancora di non averlo fatto.
Avrei voluto chiederti se ti mancano gli USA ma mi sembra che non te ne freghi proprio nulla...
Ci vado in vacanza e per allenarmi mi sento straniero. Quando sto lì, anche se parlo l’americano, mi comporto come se non lo capissi, lofaccio apposta perché proprio non mi piacciono. Ma neanche le donne, ho avuto una piccola storia con una ragazza americana – mamma mia – dopo tre giorni sono andato a comprare i biglietti.
Tu anziché avere il mito dell’America hai il mito dell’Italia?
Ma certo,ma anche in America è così, amano gli italiani perchénon avranno mai il gusto nostro, quello che abbiamo noi. Il modo, la bellezza delle donne, delle persone, come si tratta la gente, In America ci sono tante cose che a me non mi piacciono proprio, non hanno la genuinità che abbiamo noi. E poi ci sono tante cose che io proprio non sopporto dell’America.
Quali?
La sanità, se uno sta male vai in ospedale e se non sei assicurato non ti possono fare niente, mentre invece in Italia ti curano ti assistono e questa è una cosa fondamentale che non deve cambiare mai. E poi la politica, il fatto che ci sia una persona sola che comanda e fa tutto lui, Bush ha fatto un casino quest’anno, l’America e tutti quanti nel mondo non vedono l’ora che venga scalzato dalla sua posizione.
Sei un idolo per molti ragazzi, qual è la cosa che vorresti che arrivasse ai ragazzi?
Più che altro io penso che debbano essere se stessi, né più né meno. Io per esempioquando ero piccolo mi sono scelto ben bene i miei modelli, però non è che li ho scelti e seguiti ciecamente, perché non chiederei mai questo, anzi penso che uno più diventa grande e famoso più debba essere umile e alla portata di tutti, e invece tra calciatori e altri non mi sembra che ci sia questa attitudine. Io in questo senso sono molto tranquillo, non voglio dare delusioni a chi mi prende come modello. Io preferisco che uno mi guardiper quello che sono: un ragazzo che corre e salta e a cui se chiedi un consiglio te lo dà spassionatamente senza pretendere che tu lo segua a tutti i costi.
E’ sempre la voglia di spaccare tutto che ti dàlo stimolo giusto per tutto, che sia un salto, una corsa o un concerto?
Purtroppo sì.
Perché purtroppo?
Perché ogni tnato ci vuole anche la calma.
Quanto conta la grinta nello sport?
E’ tutto, se non hai grinta non vai da nessuna parte.

BOTTA SECCA

Hamburger o amatriciana?
Amatriciana tutta la vita
Cheesecake o ciambellone?
Ciambellone, scherzi, ciambellone con un po’ di latte è il massimo
Salto o velocità?
Salto, per adesso
Record dei 9 metri o medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino (2008)?
Mmm... facciamo tutte e due
Oro olimpico o ai Campionati del Mondo?
Oro olimpico, decisamente, è molto più bello
Indoor o outdoor?
Aria aperta
Atletica o rock?
Eheehehe, boh... per adesso devo dire atletica se no la federazione mi stacca le orecchie, poi rock
I-pod o musica dal vivo?
Purtroppo devo dire i-pod perché mi sento solo quello, giro solo con quello.
L’ultima è difficile... medaglia di bronzo,e sottolineo bronzo, a Pechino (2008) o scudetto alla Lazio?
Questa è davvero difficile.. vabbe’ scudetto alla Lazio sai perché? Perché ogni volta che la Lazio vince lo scudetto io faccio qualcosa di grande, basta!
(realizzata nel Centro Sportivo dell'Aeronautica Militare di Vigna di Valle a marzo 2007)



Andrew Howe è nato a Los Angeles il 18/05/1985 (Toro)