06/10/11

This must be the place: quando si dice il rock...


Il nuovo film di Paolo Sorrentino, This Must Be the Place, è bellissimo, è un piccolo capolavoro. E' un film americano, nel vero senso della parola, perché dentro c'è tutto: c'è la storia, gli attori, il viaggio, il superamento dei limiti, la sorpresa e c'è soprattutto la musica. Perché la musica è sempre fondamentale. La storia è quella di Cheyenne (Sean Penn), ex rockstar depressa, miliardaria e piena di sensi di colpa, che nel viaggio, nella ricerca delle proprie origini e nella riscoperta del padre, troverà la sua redenzione. Dalla musica nasce la fortuna e la disperazione di Cheyenne, con la musica inizierà la sua rinascita. In mezzo ci sono una moglie amorevole e innamorata (Frances Mc Dormand) che lo tratta come un figlio rimasto bambino, un'amica sedicenne che deve affrontare le sue insicurezze e le sue fragilità, un criminale nazista da trovare in capo al mondo, un'umanità varia e quotidiana che non va in televisione e proprio per questo è autentica. E' l'umanità rassegnata di Rachel, che deve lavorare in un diner della provincia più desolata, per tirare su da sola un figlio avuto da un soldato scomparso, è quella disperata della madre di Mary che non trova una spiegazione alla fuga senza motivo del figlio Tony, è quella piena di sogni e speranze di Desmond, che vuole solo stare con Mary e cambiare vita, è quella ossessionata di Mordecai Midler, da una vita a caccia di nazisti. Ma è un'umanità vera, ognuno a modo suo è una tessera unica nel grande puzzle della vita. E nel film di Sorrentino c’è la vita.
Quando lo chiamano perché suo padre sta morendo, Cheyenne parte per New York senza quasi sapere perché lo stia facendo, ma sarà proprio questo viaggio, l'incontro con la morte, la solitudine, la disperazione, la crudeltà, e con l’umiliazione, a restituirlo alla vita.
E poi c’è Sean Penn, il più grande attore degli ultimi trent’anni. Ogni volta che lo vedi in un film pensi che si sia superato, che abbia raggiunto il limite massimo di bravura consentita ad un essere umano, ma ogni volta poi lui ti sorprende, ti stupisce, si supera. Era successo con Dead man walking dove interpretava la feccia dell’umanità, il più deprecabile degli esseri umani , artefice del crimine più efferato, più disgustoso, più vigliacco. Eppure alla fine quasi ti faceva pena e non volevi che venisse condannato a morte perché nessuno – nemmeno la feccia della feccia dell’umantà – merita l’iniezione letale. Era successo con Io sono Sam, dove interpetava un padre ritardato dotato di infinita tenerezza a cui volevano togliere la figlia, è successo con Mystic river, in cui invece era dilaniato dall'uccisione brutale della figlia, ed è successo anche con Milk , dove diventava il celebre attivista gay vissuto e assassinato nella California degli anni '70. Succederà anche adesso, nel prossimo futuro: perché Sean Penn in This must be the place è immenso, riesce a recitare anche solo con lo sguardo, con quegli occhi che più azzurri non potrebbero essere e che hanno lo straordinario dono di parlare. Il suo personaggio ha il fascino glamour e un po' retrò di Robert Smith ma anche quello ambiguo, devastante, dannato e malinconico di Marilyn Manson. I suoi vestiti parlano per lui e di lui, e ci riconducono ciclicamente all'universo che pure Cheyenne ha abbandonato e che non vuole riconoscere più. Ma fanno parte (quell'universo e quegli abiti) del suo DNA e da li non si può prescindere. Nel personaggio di Cheyenne c’è la lentezza di Sam, l’ostinazione di Milk, il dolore infinito di Jimmy Markum. Ma come fa? Come può essere così calato in ogni singolo personaggio e mettere, ogni volta, un piccolo frammento, anche infinitesimale, del carattere precedente. Come fa? Lo fa da grande artista, qual è, ovvero raccontandoti attraverso un milione di dettagli, sguardi, movimenti, gesti minuscoli, tutte le innumerevoli sfaccettature che un essere umano ha, nel bene e nel male. E lo fa spingendoti a scovare dentro di te quel frammento microscopico che anche tu potresti possedere. Così facendo ti fa entrare nel corpo e nell'anima di quel personaggio. Tanto che alla fine anche tu ti ci riconosci un po' e quando esci dalla sala ti senti anche tu un po' Sam, un po' Jimmy, un po' Milk, un po' Cheyenne...

This must be the place: quando si dice il rock...


Il nuovo film di Paolo Sorrentino, This Must Be the Place, è bellissimo, è un piccolo capolavoro. E' un film americano, nel vero senso della parola, perché dentro c'è tutto: c'è la storia, gli attori, il viaggio, il superamento dei limiti, la sorpresa e c'è soprattutto la musica. Perché la musica è sempre fondamentale. La storia è quella di Cheyenne (Sean Penn), ex rockstar depressa, miliardaria e piena di sensi di colpa, che nel viaggio, nella ricerca delle proprie origini e nella riscoperta del padre, troverà la sua redenzione. Dalla musica nasce la fortuna e la disperazione di Cheyenne, con la musica inizierà la sua rinascita. In mezzo ci sono una moglie amorevole e innamorata (Frances Mc Dormand) che lo tratta come un figlio rimasto bambino, un'amica sedicenne che deve affrontare le sue insicurezze e le sue fragilità, un criminale nazista da trovare in capo al mondo, un'umanità varia e quotidiana che non va in televisione e proprio per questo è autentica. E' l'umanità rassegnata di Rachel, che deve lavorare in un diner della provincia più desolata, per tirare su da sola un figlio avuto da un soldato scomparso, è quella disperata della madre di Mary che non trova una spiegazione alla fuga senza motivo del figlio Tony, è quella piena di sogni e speranze di Desmond, che vuole solo stare con Mary e cambiare vita, è quella ossessionata di Mordecai Midler, da una vita a caccia di nazisti. Ma è un'umanità vera, ognuno a modo suo è una tessera unica nel grande puzzle della vita. E nel film di Sorrentino c’è la vita.
Quando lo chiamano perché suo padre sta morendo, Cheyenne parte per New York senza quasi sapere perché lo stia facendo, ma sarà proprio questo viaggio, l'incontro con la morte, la solitudine, la disperazione, la crudeltà, e con l’umiliazione, a restituirlo alla vita.
E poi c’è Sean Penn, il più grande attore degli ultimi trent’anni. Ogni volta che lo vedi in un film pensi che si sia superato, che abbia raggiunto il limite massimo di bravura consentita ad un essere umano, ma ogni volta poi lui ti sorprende, ti stupisce, si supera. Era successo con Dead man walking dove interpretava la feccia dell’umanità, il più deprecabile degli esseri umani , artefice del crimine più efferato, più disgustoso, più vigliacco. Eppure alla fine quasi ti faceva pena e non volevi che venisse condannato a morte perché nessuno – nemmeno la feccia della feccia dell’umantà – merita l’iniezione letale. Era successo con Io sono Sam, dove interpetava un padre ritardato dotato di infinita tenerezza a cui volevano togliere la figlia, è successo con Mystic river, in cui invece era dilaniato dall'uccisione brutale della figlia, ed è successo anche con Milk , dove diventava il celebre attivista gay vissuto e assassinato nella California degli anni '70. Succederà anche adesso, nel prossimo futuro: perché Sean Penn in This must be the place è immenso, riesce a recitare anche solo con lo sguardo, con quegli occhi che più azzurri non potrebbero essere e che hanno lo straordinario dono di parlare. Il suo personaggio ha il fascino glamour e un po' retrò di Robert Smith ma anche quello ambiguo, devastante, dannato e malinconico di Marilyn Manson. I suoi vestiti parlano per lui e di lui, e ci riconducono ciclicamente all'universo che pure Cheyenne ha abbandonato e che non vuole riconoscere più. Ma fanno parte (quell'universo e quegli abiti) del suo DNA e da li non si può prescindere. Nel personaggio di Cheyenne c’è la lentezza di Sam, l’ostinazione di Milk, il dolore infinito di Jimmy Markum. Ma come fa? Come può essere così calato in ogni singolo personaggio e mettere, ogni volta, un piccolo frammento, anche infinitesimale, del carattere precedente. Come fa? Lo fa da grande artista, qual è, ovvero raccontandoti attraverso un milione di dettagli, sguardi, movimenti, gesti minuscoli, tutte le innumerevoli sfaccettature che un essere umano ha, nel bene e nel male. E lo fa spingendoti a scovare dentro di te quel frammento microscopico che anche tu potresti possedere. Così facendo ti fa entrare nel corpo e nell'anima di quel personaggio. Tanto che alla fine anche tu ti ci riconosci un po' e quando esci dalla sala ti senti anche tu un po' Sam, un po' Jimmy, un po' Milk, un po' Cheyenne...