20/12/13

IL ROCK DELLE EMOZIONI


Allora, io adesso l'ho ascoltato, l'ho “sentito”, l'ho riascoltato, e l'ho “risentito”, e quindi posso dirlo: il nuovo disco di Ligabue, Mondovisione, è un bel disco. Senza dubbio. A parte qualche brano (“Con la scusa del rock'n'roll”, “Il muro del suono”, “Tu sei lei”) che sembra un po' troppo simile a qualcuno del passato (ma che comunque si fanno apprezzare soprattutto per i testi), gli altri sono decisamente di livello. L'intensità de “La terra trema” e di “Ciò che rimane di noi” non si sentiva da anni, così come la struttura perfetta di “Per sempre” - che potrebbe essere un ottimo singolo – o il crescendo musicale che caratterizza sia “Siamo chi siamo” che “Il volume delle tue bugie” ci riconsegnano un Artista con la A maiuscola, maturo e consapevole del proprio spessore artistico. I testi sono belli, profondi, a tratti struggenti, le chitarre suonano bene e sono tutte perfettamente inserite sulla ritmica, le tastiere - quando ci sono (in “Siamo chi siamo” per esempio) – entrano perfettamente in questo tessuto musicale e gli danno quel tocco in più che in altri casi era mancato. Ma è soprattutto l'emotività, l'anima, che emerge da queste nuove canzoni che colpisce al cuore e che rende questo album, finalmente, bello comunque lo si giri. È in perfetto stile Ligabue, si sente il suo marchio di fabbrica, il sound è tornato su binari meno pop e più rock (merito anche della produzione di Luciano Luisi) ma tutto l'insieme è migliorato con l'esperienza e con gli anni. Esattamente come la voce di Luciano che è ulteriormente migliorata raggiungendo praticamente la perfezione o qualcosa che ci va molto vicino, basta sentire “Sono sempre i sogni a dare forma al mondo” per capire di cosa sto parlando.
Non sarà innovativo, obietterà qualcuno, ma Ligabue non deve esserlo più a 53 anni, deve fare il rocker ovvero trasmettere emozioni con grande energia. E con Mondovisione è tornato a farlo prepotentemente. Bravo!

11/12/13

La dignità del lavoro (quella che giuseppegrillo non ha


Attaccare con gli insulti e con le grida forsennate già di per sé è deprecabile e sintomatico, farlo nei confronti di una donna che lavora (e lo con grande competenza e professionalità) è disgustoso e di conseguenza inaccettabile. Esporla ad un gogna mediatica e telematica è addirittura odioso. È sempre facile parlare da dietro una tastiera o uno schermo, è sempre facile sputare sentenze e parolacce standosene seduti comodamente, è sempre facile arringare folle di essasperati che non vedono l'ora di sfogare la propria frustrazione, è sempre facile dire che si mangia il pane a tradimento o che si campa sui finanziamenti dello Stato (quindi pagati da tutti i contribuenti), è sempre facile urlare se ne deve andare a casa, cacciamola via, deve cercarsi “un” lavoro. È molto, molto facile, soprattutto se hai le spalle molto, molto coperte. Se sei molto, molto ricco, se sei protetto, molto protetto. Giuseppegrillo, l'ultimo dei capipopolo che questo misero paese ci ha riservato, non sopporta proprio che quello del giornalista sia un lavoro: dignitoso bellissimo, importantissimo e faticosissimo. Figuriamoci poi se a svolgerlo è una donna! Come minimo, per bene che le vada, è stata raccomandata da qualcuno in cambio di favori sessuali. Quindi merita di essere lapidata (metaforicamente, spero) nella pubblica piazza (quella della rete che tanto ama giuseppegrillo) per almeno tre motivi: primo perché non lavora, secondo perché si fa mantenere da lui (sempre giuseppegrillo) e dai suoi adepti, terzo perché è una prostituta.
Qualsiasi lavoro, lo ripeto e lo sottolineo, qualsiasi (anche quello delle prostituta) ha una sua dignità, parola il cui significato evidentemente sfugge a giuseppegrillo che non ha certo il problema di cercarsi e trovarsi un lavoro. Non sa – evidentemente – cosa significhi sentirsi precario nel presente e dubbioso per il futuro, non sa quanto fatichiamo noi comuni mortali, ogni giorno, per portare a casa lo stipendio e mantenere integra la nostra dignità. Quella di donne che lavorano, soprattutto. Non lo sa. Non gli interessa. Non è un suo problema. Così come non conosce il significato della parola rispetto. Ma anche questo non gli interessa, non è un suo problema.
A proposito, ma giuseppegrillo che mestiere fa?

11/11/13

30 ANNI DOPO L.A. E' SEMPRE... MENO DI ZERO


THE CANYONS
di Paul Schrader
Scitto da Bret Easton Ellis
con Lindsay Lohan, James Deen, Nolan Funk, Amanda Brooks, Tenille Houston
Produzione: USA 2013
Esce il 14 novembre


La noia esistenziale, il lusso sfrenato, la disperazione della povertà, la cocaina come stimolo, il sesso vissuto senza regole (ammesso che ne abbia) e senza sentimento, la violenza maniacale, l'ennesima versione del sogno americano che va in frantumi. Bret Easton Ellis, scrittore prodigio dei favolosi e scintillanti anni 80, resta fedele ai suoi cliché, quelli che gli hanno garantito il successo planetario, e li mescola in maniera molto abile nel nuovo film diretto da Paul Schrader.
Al centro di The Canyons c'è un ricchissimo rampollo di famiglia (Christian, interpretato da James Deen) che “gioca” a fare il produttore cinematografico. Accanto a lui la bellissima e misteriosa Tara (un'ottima Lindsay Lohan), attrice dal passato oscuro che verrà lentamente svelato nel corso della vicenda. Christian sta per produrre un film di scarsissima qualità solo per poter continuare a prendere i soldi del padre ed accontentare al tempo stesso la sua assistente, Gina (Amanda Brooks), scegliendo il suo fidanzato Ryan (Nolan Funk) come protagonista. A completare il quadro, c'è Cynthia (Tenille Houston), ufficialmente insegnante di yoga, in pratica ex aspirante attrice ed ex ragazza di Christian il quale continua – nonostante la relazione sui generis con Tara - a godere anche dei suoi favori sessuali.
Ognuno di loro – ad eccezione di Gina, l'unica anima pura del film – ha qualcosa da nascondere. Ognuno di loro vive ossessionato dalle proprie paranoie: che sia il sesso, la gloria, il terrore di tornare a vivere in un tugurio, il denaro, tutti sembrano disposti a fare qualsiasi cosa pur di raggiungere il proprio obiettivo. Passando sopra a tutto e a tutti.
A fare le spese di questa corsa sfrenata a velocità folle verso il soddisfacimento delle proprie ambizioni (anche le più turpi) saranno le uniche due persone che ancora credono nei sentimenti, le uniche che vivono secondo i propri mezzi fidandosi dell'amore e della sincerità. Ma in una società spietata priva di qualsiasi sentimento, amore e sincerità sono parole svuotate di senso e di significato. Non servono nemmeno a riempire la bocca dei protagonisti, tanto sono fuori luogo. Il film si tinge di noir e accelera verso l'epilogo che sarà quantomai tragico con tutti i protagonisti appiattiti su un livello di aberrazione e vacuità morale emblematico. Di contro, chi crede nell'amore e nella possibilità di una vita “normale” è destinato a soccombere.
Un film cinico e duro dove non c'è posto per il pentimento né per l'amore, una storia dove il sogno americano è ridotto ad una disgustosa poltiglia che si incolla alle vite dei vari personaggi e li plasma come mostruose marionette disposte a tutto pur di raggiungere quello stesso sogno che hanno fatto a pezzi. Meglio fingere che essere felici, meglio il denaro della passione, meglio l'artificio della realtà. E Los Angeles, anch'essa protagonista del film con i suoi canyons affascinanti e ambigui, non poteva che essere lo scenario ideale per una storia come questa: accogliente e solare all'apparenza, cinica e spietata nella realtà.     

17/10/13

L'AMORE CONTA...



LA VITA DI ADELE
di Abdellatif Kechiche
con Adele Exarchopoulos, Lea Seydoux, Jeremie Laheurte
Francia, Belgio, Spagna 2013

Adele vive la sua adolescenza tra mille dubbi e altrettante insoddisfazioni, l'unica certezza della sua vita è la lettura e il sogno di diventare un'insegnante. Le sue insicurezze sono legate soprattutto alla sessualità e all'amore. Si mette così alla prova con il buon Thomas, un compagno di scuola timido e sorridente che si invaghisce di lei, ma alla prova dei fatti, Adele sente che le manca qualcosa, che la sua sessualità non è soddisfacente, che il rapporto con Thomas non è completo: manca la passione. Le sue insicurezze aumentano quando incrocia per strada una misteriosa ragazza dai capelli azzurri che ai suoi occhi di liceale appare subito come simbolo di libertà. Lo sguardo sfrontato e insistito che le lancia quella ragazza, turba a tal punto Adele, che inizia a sognarla e a desiderarla in maniera sempre più assidua e ossessiva. Cosa che la spaventa e la attrae al tempo stesso. Casualmente - “ma il caso non esiste”, le farà notare di lì a poco Emma, la ragazza coi capelli colorati – si ritrova in un bar prevalentemente frequentato da omosessuali dove incontra di nuovo la stessa donna. Da lì inizierà per Adele un percorso di scoperta e di realizzazione di se stessa che arriverà a compiersi del tutto solo attraverso l'amore di, e con, Emma.
Insultata ed emarginata dalle sue amiche di scuola, invisibile agli occhi della sua famiglia, per Adele non sarà facile fronteggiare la nuova esperienza di vita. Ma come le dice uno sconosciuto alquanto fuori di testa nello stesso locale dove Adele è andata a cercare le risposte alla sua inquietudine, “l'amore non ha sesso, l'importante è piacersi ed essere felici”: sarà questa frase buttata lì quasi per caso – ma il caso, evidentemente, non esiste – a convincerla della giustezza della scelta che sta per compiere. Il film, tratto dalla graphic novel di Julie Maroh “Il blu è un colore caldo”, è tutto giocato sulle emozioni e sulle sensazioni che prova Adele, da adolescente confusa, prima, da giovane donna realizzata poi. Con Emma scoprirà non solo che l'amore, così come la passione, non ha confini né generi né tatnomeno limiti, ma che perfino la libertà e l'anticonformismo possono rimanere impigliati nella complessa trama degli schemi precostituiti, quando si tratta di senitmenti forti. Adele però ha imparato ormai a convivere con le sue insicurezze scoprendo una nuova consapevolezza di sé che le restituirà la voglia di vivere.
Premiato con la Palma d'Oro al Festival di Cannes 2013, “La vita di Adele” esce il 24 ottobre.

14/10/13

Il criminale Priebke, il ragazzino scemo e lo scafista Alì


Cosa passa nella testa di un ragazzino (deve essere per forza molto giovane, visto che ha sbagliato anche a scrivere il nome) che nel 2013 scrive “W Pribke” sul muro di una scuola? La prima risposta, spontanea, “Nulla”. Io però ho provato ad entrare nella testa di quel ragazzino, autore di una simile aberrazione di cui non conosce nemmeno la portata: è spirito di contraddizione? Tutti sono contro quell'uomo, io vado controcorrente? Mmm..., potrebbe ma non mi sembra tanto plausibile: i ragazzi oggi, soprattutto quelli molto giovani, sono tutti molto omologati e temono talmente tanto la diversità che non fanno nulla se non lo hanno visto fare già da qualcun altro. Spirito di emulazione, allora. Ma chi vuole emulare uno che inneggia a un criminale di guerra? I suoi “amici più grandi”, che giocano a fare i duri – ma solo quando sono 20 contro uno - e poi scappano di fronte a qualsiasi responsabilità? Spirito di provocazione? Guardate quanto sono bravo, io inneggio a un criminale ma quando non mi vede nessuno... Ma come si può prendere come esempio una persona che “uccide” 335 (trecentotrentacinque) esseri umani, 335 uomini come lui? Mi domando allora: ma con chi vive questo ragazzino, chi sono i suoi genitori, chi e cosa vede a casa sua? In quale miseria culturale ed esistenziale è vissuto fino ad oggi?
Chi decide di togliere la vita a 335 persone, non può essere mai preso come modello di vita, anche se “obbedisce” a ordini superiori, anche se c'è una guerra da combattere, e un nemico da sconfiggere. Chi si arroga il diritto di eliminare dalla faccia della Terra 335 suoi simili, non può essere un esempio. Semmai rappresenta uno scempio. Uno scempio che cancella qualsiasi dignità alla vita e all'essere umano, qualsiasi giustificazione, qualsiasi traccia di intelligenza. Non c'è ragione (in tutti i sensi), non ci sono scusanti, né motivazioni che possano reggere di fronte a una simile aberrazione. Così come non ci sono di fronte ai nuovi carnefici del nostro secolo: gli scafisti che trasportano ogni giorno centinaia di poveri disgraziati disperati che fuggono dai loro paesi in fiamme in cerca di un futuro più sicuro, più dignitoso, meno atroce. Sono loro i nazisti del Ventunesimo secolo, coloro che si arrogano il diritto di disporre della vita di migliaia di persone, trasportandole su barconi sempre più fatiscenti sapendo che a malapena riusciranno a toccare terra. Eppure loro si salvano sempre. Come si è salvato Priebke, al quale è stato addirittura concesso l'onore di vivere fino a 100 anni.
Ecco forse quel ragazzino con lo spray in mano e la testa confusa voleva mostrare a tutti la sua stupidità, la sua insulsaggine, la sua inutilità di essere umano.
Ma magari tra 70 anni non ci sarà nessun ragazzino con una bomboletta spray nera in mano a scrivere sul muro di una scuola: “W Alì, scafista”...

11/10/13

Loud like love, ovvero la potenza dell'amore


E alla fine, il nuovo disco dei Placebo - Loud like love - è un bell'album. Sì, decisamente: bello, intenso, suonato benissimo e con la voce possente e delicata al tempo stesso di Brian Molko. Forse, inconsciamente, li avevo sottovalutati un po', perché istintivamente li consideravo troppo distanti (e di fatto lo sono) dal mainstram rock americano, quello che ho sempre amato e che continuo a preferire. Però le sonorità dei Placebo colpiscono al primo ascolto, anche a distanza di anni dal loro esordio, datato 1996. Questo disco, sentito all'inizio quasi distrattamente, in realtà ti inchioda allo stereo e ti costringe ad un ascolto più attento e approfondito. Dentro c'è tutto: c'è il ritmo, ci sono i suoni, c'è la tecnica, c'è la voce, c'è il rock. E ci sono i testi, mai banali e ripetitivi. Perché si può parlare d'amore, in tutte le sue forme e in tutte le sue declinazioni, senza scadere nella retorica e nella superficialità. E' ciò che fa Brian Molko, e lo fa ottimamente anche sfruttando al meglio tutte le potenzialità della sua voce, che non sono pochissime. Insomma, con questo disco (ri)scopro un grande gruppo ma soprattutto mi riconcilio con il rock inglese che – alla fine – ha un suo grande, grosso, immenso perché...

10/10/13

FOREVER YOUNG


Giovani ribelli (Kill your darlings )”, ovvero la nascita della Beat Generation

Le premesse per un grandissimo successo ci sono davvero tutte: un cast semi-stellare di giovani del nuovo cinema americano, una storia appassionante (quella di un gruppo di amici - poi diventati i creatori del movimento letterario piu imprortante del ventesimo secolo), una trama avvincente. Con queste credenziali “Giovani ribelli (Kill your darlings)” si presenta nelle sale cinematografiche di tutta Italia.
Protagonista centrale è Daniel Radcliffe che interpreta il ruolo di un giovanissimo Allen Ginsberg, uno dei fondatori della cosiddetta Beat Generation, ovvero quel movimento artistico che ha caratterizzato tutta la cultura giovanile dagli Anni '50 in poi.
La storia è quella di quattro giovani studenti della Columbia University (a New York) che, ispirati dall'esempio di Walt Whitman e della "setta dei poeti estinti" ma soprattutto dalla “Visione” di Yeates, sfidano le regole rigidissime della più potente Università Americana, finendo per diventare a loro volta una fonte inesauribile di ispirazione per le generazioni successive. I quattro studenti sono Allen Ginsberg, appunto, interpretato da un ottimo Daniel Radcliffe, Lucien Carr (Dane DeHaan), William Burroughs (Ben Foster), Jack Kerouac (Jack Huston). Già paragonato al celebre “L'attimo fuggente”, il film di Peter Weir interpretato nel 1989 da Robin Williams nel ruolo di un professore che spinge i suoi alunni a seguire il proprio istinto, in realtà qui non c'è un insegnante che stimola i suoi allievi alla ribellione, ma al contrario sono loro che si ribellano agli insegnamenti classici ed obsoleti (dal loro punto di vista) del Professor Steeves. E dalla lettura della “Visione” di Yeates, trarranno spunto per dare vita ad una “Nuova visione” in cui vengono ribaltati tutti i canoni letterari. Tra loro c'è anche la presenza – sempre più ingombrante - di David Kammerer, professore costretto a lavorare come bidello, scrittore ombra (nonché amante) di Lucien Carr, che segnerà in maniera drammatica la vita di tutti loro.
Giovani ribelli” è uno di quei film di cui si parlerà molto, e a lungo. E' un film che racconta un aspetto della Beat Generation decisamente poco noto, ma determinante per capire – ad esempio – da dove parte “L'urlo” di Ginsberg. Un film da vedere con attenzione per capire tante piccole sfaccettature che hanno poi dato vita ad un movimento culturale cosi importante e innovatico come la Beat Generatiom.
A conferma di ciò il Premio come film evento delle Giornate degli Autori a Venezia con una motivazione che lo definisce “un’opera di forte creatività autoriale in grado, grazie a una rigorosa scelta di stile e ad originalità di approccio, di segnare la nuova stagione del cinema americano in cui sono rispettate le ragioni del pubblico, della cinefilia, della memoria culturale del secolo. Forte di uno spettacolare gioco d’attori, della forza della colonna sonora, di una cinematografia spiazzante e raffinata, il film è diventato un autentico evento nel contesto della 70 Mostra del Cinema”. 

03/10/13

Lampedusa e il senso della vita


 A Lampedusa ci sono stata per la prima volta nel 1998, in vacanza. Ho scoperto un posto selvaggio e meraviglioso, con un grande cuore e un'anima immensa, immersi in un mare splendido. Ma più che il mare a colpirmi fu l'aria che si respirava: un'aria limpida, pura, fatta di dignità, sensibilità, empatia, compassione, solidarietà. Parole che anche allora suonavano obsolete ma che ancora oggi contengono il senso della vita. Una vita che ha sempre meno valore in un mondo – e in un paese – dominato (allora come oggi) dagli interessi personali, dalla smania di potere, dalla ricerca smodata e smisurata del denaro in nome del quale si consumano le nefandezze più disgustose e si perdono di vista i motivi per cui valga davvero la pena viverla questa vita. Lampedusa, anche allora, era una goccia nell'oceano, un'oasi di umanità dove chiunque era accolto a braccia aperte, curato e sfamato con quel poco che ognuno aveva e che metteva a disposizione per il bene di tutti. Senza enfasi, senza clamore, senza proclami, con la naturalezza della spontaneità che da normalità si è trasformata, in un mondo marcio, in eclatante eccezionalità. Allora i lampedusani mi sono entrati nel cuore, e oggi – più di ieri – li porto dentro di me come un esempio da tenere sempre a mente, e da seguire in qualsiasi circostanza: perché la loro infinita generosità, il loro grande cuore e la loro immensa anima mi ricordano in ogni istante quale sia il senso della vita.

08/08/13

Miss Patti e la favola della volpe e l'uva

Continuo a leggere, da anni ormai (per essere precisi dal 1988, anno in cui venne ufficializzata la loro relazione), commenti sull'estetica, battute ironico-acide quando non addirittura insulti, su Patti Scialfa, musicista e cantante, corista e chitarrista, ma soprattutto moglie di Bruce Springsteen. I commenti più “benevoli” che la riguardano vanno (post 1988) da “è un cesso” a (oggi) “ma come si veste? Si è rifatta, pure male”. Tralascio, ovviamente e volutamente, gli insulti e i commenti sul suo modo di cantare e/o suonare. Ricordo i fischi che nel tour del 1988 (Tunnel of love) la accompagnavano quando Bruce stesso la presentava insieme a tutti gli altri componenti delle E Street Band, e ricordo i commenti a dir poco pesanti, anche di alcuni colleghi giornalisti, che la criticavano e l'ammazzavano su tutto. Qualsiasi cosa facesse, era pessima. Però lei era lì, sul palco, accanto a Bruce, e chi fischiava e criticava era sugli spalti o dietro una scrivania. Ho sempre pensato, in quei momenti, e ancor di più ci penso oggi, alla famosa favola della volpe e l'uva, un illuminante racconto di saggezza popolare scritto e fatto conoscere a tutto il mondo occidentale da Esopo, scrittore e favolista greco del VI secolo avanti Cristo. E' facile essere esposta a critiche e invidie di qualsiasi tipo quando sei la donna scelta, la compagna di vita, la moglie, la madre dei suoi figli, di uno degli uomini più affascinanti di maggior successo e ricchi, quindi ambito, del mondo. Il difficile – casoma – è resistere e ignorare le critiche, le invidie, le malelingue. Sarà perché porta il mio stesso nome (but with a c instead of a z), sarà perché è (stata) una donna normale, nata e cresciuta nel New Jersey, lavorando e coltivando la sua passione per la musica esattamente come lui, sarà perché non è mai stata una modella-bellona, sarà per solidarietà femminile o perché ho sempre rispettato, a prescindere le scelte di chiunque fosse in qualche modo vicino a me, o sarà per chissà per quale altra cosa, comunque a me Miss Patti (“the first lady of rock”, come l'ha definita Bruce) è sempre stata simpatica. Ho sempre fatto il tifo per lei perché credo che se Mr. Springsteen dal 1988 ad oggi ci ha regalato tanti piccoli, grandi, immensi capolavori, tante emozioni, tanta gioia, tanta carica, tanta energia, una (bella) parte del merito sia anche della donna che gli è stata e gli è rimasta a fianco, rendendolo felice e per di più padre di 3 figli. Si dice che dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna. Personalmente sono convinta che la grande donna sia accanto (e non dietro) al grande uomo, in maniera più o meno discreta, più o meno evidente, a seconda del suo carattere. Così come sono altrettanto convinta che Miss Patti Scalfa (come la chiama lui) sia non solo una grandissima donna, ma che rappresenti anche la rivincita di tutte le donne normali nei confronti delle supermodelle-bellone che popolano l'universo (e l'immaginario) maschile, rock e non solo. Poi certo, io per prima vorrei essere al suo posto ma non solo non lo nego ma non mi nascondo nemmeno dietro la favola della volpe e l'uva...