08/08/13

Miss Patti e la favola della volpe e l'uva

Continuo a leggere, da anni ormai (per essere precisi dal 1988, anno in cui venne ufficializzata la loro relazione), commenti sull'estetica, battute ironico-acide quando non addirittura insulti, su Patti Scialfa, musicista e cantante, corista e chitarrista, ma soprattutto moglie di Bruce Springsteen. I commenti più “benevoli” che la riguardano vanno (post 1988) da “è un cesso” a (oggi) “ma come si veste? Si è rifatta, pure male”. Tralascio, ovviamente e volutamente, gli insulti e i commenti sul suo modo di cantare e/o suonare. Ricordo i fischi che nel tour del 1988 (Tunnel of love) la accompagnavano quando Bruce stesso la presentava insieme a tutti gli altri componenti delle E Street Band, e ricordo i commenti a dir poco pesanti, anche di alcuni colleghi giornalisti, che la criticavano e l'ammazzavano su tutto. Qualsiasi cosa facesse, era pessima. Però lei era lì, sul palco, accanto a Bruce, e chi fischiava e criticava era sugli spalti o dietro una scrivania. Ho sempre pensato, in quei momenti, e ancor di più ci penso oggi, alla famosa favola della volpe e l'uva, un illuminante racconto di saggezza popolare scritto e fatto conoscere a tutto il mondo occidentale da Esopo, scrittore e favolista greco del VI secolo avanti Cristo. E' facile essere esposta a critiche e invidie di qualsiasi tipo quando sei la donna scelta, la compagna di vita, la moglie, la madre dei suoi figli, di uno degli uomini più affascinanti di maggior successo e ricchi, quindi ambito, del mondo. Il difficile – casoma – è resistere e ignorare le critiche, le invidie, le malelingue. Sarà perché porta il mio stesso nome (but with a c instead of a z), sarà perché è (stata) una donna normale, nata e cresciuta nel New Jersey, lavorando e coltivando la sua passione per la musica esattamente come lui, sarà perché non è mai stata una modella-bellona, sarà per solidarietà femminile o perché ho sempre rispettato, a prescindere le scelte di chiunque fosse in qualche modo vicino a me, o sarà per chissà per quale altra cosa, comunque a me Miss Patti (“the first lady of rock”, come l'ha definita Bruce) è sempre stata simpatica. Ho sempre fatto il tifo per lei perché credo che se Mr. Springsteen dal 1988 ad oggi ci ha regalato tanti piccoli, grandi, immensi capolavori, tante emozioni, tanta gioia, tanta carica, tanta energia, una (bella) parte del merito sia anche della donna che gli è stata e gli è rimasta a fianco, rendendolo felice e per di più padre di 3 figli. Si dice che dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna. Personalmente sono convinta che la grande donna sia accanto (e non dietro) al grande uomo, in maniera più o meno discreta, più o meno evidente, a seconda del suo carattere. Così come sono altrettanto convinta che Miss Patti Scalfa (come la chiama lui) sia non solo una grandissima donna, ma che rappresenti anche la rivincita di tutte le donne normali nei confronti delle supermodelle-bellone che popolano l'universo (e l'immaginario) maschile, rock e non solo. Poi certo, io per prima vorrei essere al suo posto ma non solo non lo nego ma non mi nascondo nemmeno dietro la favola della volpe e l'uva...

16/04/12

DIAZ - Don't clean up this blood


Ho visto DIAZ e mi sono vergognata di essere italiana. Mi sono sentita offesa e umiliata. Non potevo credere, allora nel 2001, e stento ancora a crederlo oggi nel 2012, che nel mio paese, uno degli 8 più industrializzati al mondo, uno stato democratico, possa essere accaduta una mattanza e un'aberrazione simile. Non potevo e non posso credere che nessuno abbia detto nulla, che tutti i responsabili e gli esecutori di questo scempio siano rimasti al loro posto, a parte uno che nel frattempo è morto.

Poi però mi sono sentita anche orgogliosa di essere italiana, perché c'è ancora gente come Daniele Vicari e Domenico Procacci, come Elio Germano e Caludio Santamaria e tutti gli altri attori e le persone che lavorano dietro le quinte che fanno film così. Con coraggio, abnegazione, sacrificio, coscienza e orgoglio. E' il sintomo che esiste un'Italia migliore, dobbiamo solo aiutarla a crescere e a farla emergere. Il film è bellissimo ancorché durissimo. Alla fine sono stata male, sono uscita dal cinema scioccata, io come tanti di quelli che erano in sala, perché l'angoscia, l'orrore, il terrore che tutto ciò si possa ripetere non ti lascia mai durante tutto l'arco del film. Quando pensi di essere uscito da un incubo, ecco che il montaggio - geniale - ti scaraventa senza alcuna pietà in un altro addirittura peggiore del precedente. Che non finisce mai, perché ce n'è subito un altro in cui sprofondare un attimo dopo. Dopo la Diaz c'è Bolzaneto, dopo Bolzaneto c'è Voghera. E tu sei lì, inchiodata alla poltrona che vorresti piangere e non ci riesci perché anche le lacrime nel frattempo si sono pietrificate. E' un vortice di violenza insensata, di prevaricazione ingiustificata, di arroganza e di crudeltà fini a se stesse che hanno devastato la vita di 93 persone. Per sempre. E tu pensi che poteva capitare anche a te forse, o a qualcuno che conosci, e ti sembra tutto ancora più folle. E ti chiedi - ancora una volta - ma perché nessuno stato straniero, nessun ambasciatore, nessun console, abbia mai chiesto/fatto/detto/ nulla su quella che Amnesty International ha definito la più grave sospensione dei diritti umani in un paese occidentale dalla seconda guerra mondiale. La risposta però, ahimé, è sempre la stessa, la prima che ti viene in mente, da 11 anni a questa parte.

06/10/11

This must be the place: quando si dice il rock...


Il nuovo film di Paolo Sorrentino, This Must Be the Place, è bellissimo, è un piccolo capolavoro. E' un film americano, nel vero senso della parola, perché dentro c'è tutto: c'è la storia, gli attori, il viaggio, il superamento dei limiti, la sorpresa e c'è soprattutto la musica. Perché la musica è sempre fondamentale. La storia è quella di Cheyenne (Sean Penn), ex rockstar depressa, miliardaria e piena di sensi di colpa, che nel viaggio, nella ricerca delle proprie origini e nella riscoperta del padre, troverà la sua redenzione. Dalla musica nasce la fortuna e la disperazione di Cheyenne, con la musica inizierà la sua rinascita. In mezzo ci sono una moglie amorevole e innamorata (Frances Mc Dormand) che lo tratta come un figlio rimasto bambino, un'amica sedicenne che deve affrontare le sue insicurezze e le sue fragilità, un criminale nazista da trovare in capo al mondo, un'umanità varia e quotidiana che non va in televisione e proprio per questo è autentica. E' l'umanità rassegnata di Rachel, che deve lavorare in un diner della provincia più desolata, per tirare su da sola un figlio avuto da un soldato scomparso, è quella disperata della madre di Mary che non trova una spiegazione alla fuga senza motivo del figlio Tony, è quella piena di sogni e speranze di Desmond, che vuole solo stare con Mary e cambiare vita, è quella ossessionata di Mordecai Midler, da una vita a caccia di nazisti. Ma è un'umanità vera, ognuno a modo suo è una tessera unica nel grande puzzle della vita. E nel film di Sorrentino c’è la vita.
Quando lo chiamano perché suo padre sta morendo, Cheyenne parte per New York senza quasi sapere perché lo stia facendo, ma sarà proprio questo viaggio, l'incontro con la morte, la solitudine, la disperazione, la crudeltà, e con l’umiliazione, a restituirlo alla vita.
E poi c’è Sean Penn, il più grande attore degli ultimi trent’anni. Ogni volta che lo vedi in un film pensi che si sia superato, che abbia raggiunto il limite massimo di bravura consentita ad un essere umano, ma ogni volta poi lui ti sorprende, ti stupisce, si supera. Era successo con Dead man walking dove interpretava la feccia dell’umanità, il più deprecabile degli esseri umani , artefice del crimine più efferato, più disgustoso, più vigliacco. Eppure alla fine quasi ti faceva pena e non volevi che venisse condannato a morte perché nessuno – nemmeno la feccia della feccia dell’umantà – merita l’iniezione letale. Era successo con Io sono Sam, dove interpetava un padre ritardato dotato di infinita tenerezza a cui volevano togliere la figlia, è successo con Mystic river, in cui invece era dilaniato dall'uccisione brutale della figlia, ed è successo anche con Milk , dove diventava il celebre attivista gay vissuto e assassinato nella California degli anni '70. Succederà anche adesso, nel prossimo futuro: perché Sean Penn in This must be the place è immenso, riesce a recitare anche solo con lo sguardo, con quegli occhi che più azzurri non potrebbero essere e che hanno lo straordinario dono di parlare. Il suo personaggio ha il fascino glamour e un po' retrò di Robert Smith ma anche quello ambiguo, devastante, dannato e malinconico di Marilyn Manson. I suoi vestiti parlano per lui e di lui, e ci riconducono ciclicamente all'universo che pure Cheyenne ha abbandonato e che non vuole riconoscere più. Ma fanno parte (quell'universo e quegli abiti) del suo DNA e da li non si può prescindere. Nel personaggio di Cheyenne c’è la lentezza di Sam, l’ostinazione di Milk, il dolore infinito di Jimmy Markum. Ma come fa? Come può essere così calato in ogni singolo personaggio e mettere, ogni volta, un piccolo frammento, anche infinitesimale, del carattere precedente. Come fa? Lo fa da grande artista, qual è, ovvero raccontandoti attraverso un milione di dettagli, sguardi, movimenti, gesti minuscoli, tutte le innumerevoli sfaccettature che un essere umano ha, nel bene e nel male. E lo fa spingendoti a scovare dentro di te quel frammento microscopico che anche tu potresti possedere. Così facendo ti fa entrare nel corpo e nell'anima di quel personaggio. Tanto che alla fine anche tu ti ci riconosci un po' e quando esci dalla sala ti senti anche tu un po' Sam, un po' Jimmy, un po' Milk, un po' Cheyenne...

This must be the place: quando si dice il rock...


Il nuovo film di Paolo Sorrentino, This Must Be the Place, è bellissimo, è un piccolo capolavoro. E' un film americano, nel vero senso della parola, perché dentro c'è tutto: c'è la storia, gli attori, il viaggio, il superamento dei limiti, la sorpresa e c'è soprattutto la musica. Perché la musica è sempre fondamentale. La storia è quella di Cheyenne (Sean Penn), ex rockstar depressa, miliardaria e piena di sensi di colpa, che nel viaggio, nella ricerca delle proprie origini e nella riscoperta del padre, troverà la sua redenzione. Dalla musica nasce la fortuna e la disperazione di Cheyenne, con la musica inizierà la sua rinascita. In mezzo ci sono una moglie amorevole e innamorata (Frances Mc Dormand) che lo tratta come un figlio rimasto bambino, un'amica sedicenne che deve affrontare le sue insicurezze e le sue fragilità, un criminale nazista da trovare in capo al mondo, un'umanità varia e quotidiana che non va in televisione e proprio per questo è autentica. E' l'umanità rassegnata di Rachel, che deve lavorare in un diner della provincia più desolata, per tirare su da sola un figlio avuto da un soldato scomparso, è quella disperata della madre di Mary che non trova una spiegazione alla fuga senza motivo del figlio Tony, è quella piena di sogni e speranze di Desmond, che vuole solo stare con Mary e cambiare vita, è quella ossessionata di Mordecai Midler, da una vita a caccia di nazisti. Ma è un'umanità vera, ognuno a modo suo è una tessera unica nel grande puzzle della vita. E nel film di Sorrentino c’è la vita.
Quando lo chiamano perché suo padre sta morendo, Cheyenne parte per New York senza quasi sapere perché lo stia facendo, ma sarà proprio questo viaggio, l'incontro con la morte, la solitudine, la disperazione, la crudeltà, e con l’umiliazione, a restituirlo alla vita.
E poi c’è Sean Penn, il più grande attore degli ultimi trent’anni. Ogni volta che lo vedi in un film pensi che si sia superato, che abbia raggiunto il limite massimo di bravura consentita ad un essere umano, ma ogni volta poi lui ti sorprende, ti stupisce, si supera. Era successo con Dead man walking dove interpretava la feccia dell’umanità, il più deprecabile degli esseri umani , artefice del crimine più efferato, più disgustoso, più vigliacco. Eppure alla fine quasi ti faceva pena e non volevi che venisse condannato a morte perché nessuno – nemmeno la feccia della feccia dell’umantà – merita l’iniezione letale. Era successo con Io sono Sam, dove interpetava un padre ritardato dotato di infinita tenerezza a cui volevano togliere la figlia, è successo con Mystic river, in cui invece era dilaniato dall'uccisione brutale della figlia, ed è successo anche con Milk , dove diventava il celebre attivista gay vissuto e assassinato nella California degli anni '70. Succederà anche adesso, nel prossimo futuro: perché Sean Penn in This must be the place è immenso, riesce a recitare anche solo con lo sguardo, con quegli occhi che più azzurri non potrebbero essere e che hanno lo straordinario dono di parlare. Il suo personaggio ha il fascino glamour e un po' retrò di Robert Smith ma anche quello ambiguo, devastante, dannato e malinconico di Marilyn Manson. I suoi vestiti parlano per lui e di lui, e ci riconducono ciclicamente all'universo che pure Cheyenne ha abbandonato e che non vuole riconoscere più. Ma fanno parte (quell'universo e quegli abiti) del suo DNA e da li non si può prescindere. Nel personaggio di Cheyenne c’è la lentezza di Sam, l’ostinazione di Milk, il dolore infinito di Jimmy Markum. Ma come fa? Come può essere così calato in ogni singolo personaggio e mettere, ogni volta, un piccolo frammento, anche infinitesimale, del carattere precedente. Come fa? Lo fa da grande artista, qual è, ovvero raccontandoti attraverso un milione di dettagli, sguardi, movimenti, gesti minuscoli, tutte le innumerevoli sfaccettature che un essere umano ha, nel bene e nel male. E lo fa spingendoti a scovare dentro di te quel frammento microscopico che anche tu potresti possedere. Così facendo ti fa entrare nel corpo e nell'anima di quel personaggio. Tanto che alla fine anche tu ti ci riconosci un po' e quando esci dalla sala ti senti anche tu un po' Sam, un po' Jimmy, un po' Milk, un po' Cheyenne...

12/08/11

VASCO ROSSI: UN POVERACCIO OSSESSIONATO


In questi giorni di agosto, Vasco Rossi fa polemica da solo. Ci eravamo ormai dimenticati della sua imbarazzante esternazione via facebook con la quale lanciava la a sfida a Ligabue che (secondo Vasco) "ne deve mangiare ancora di polenta prima di arrivare ad essere paragonato a lui", era appena stato dimesso - Vasco - dalla clinica dove è stato ricoverato per un po' - ed eccolo che riparte all'attacco di Ligabue, e non solo. Prima definisce Luciano "un bicchiere di talento in un mare di presunzione" (già detto da Mick Jagger a Madonna), poi rincara la dose dicendo che è arrogante e presuntuoso, in mezzo ci ficca (al Tg1 dell'amico Mollica) la ricetta del suo cocktail di psicofarmaci con cui si tiene su da tempo per combattere la depressione, e un attacco ai giornalisti (che non guasta mai) "che non capiscono nulla e fraintendono tutto" (anche questo già detto, e da chi poi!). Insomma, Vasco evidentemente si annoia ed è confuso. Fa bene Ligabue a non rispondere (cosa che fa letteralmente impazzire Vasco): "Rispondere agli insulti è solo bassa promozione", canta Luciano in una delle canzoni del suo ultimo album. Appunto.Credo che Vasco Rossi ormai sia solo un miliardario annoiato dalla vita col cervello fuso dalle mille droghe che si è preso in vita sua. Ha fatto delle gran belle canzoni e dei gran bei concerti ma personalmente non l'ho mai ritenuto un mito. E queste sue esternazioni dimostrano che non solo si sente un mito e un padreterno, ma anche che sta andando incontro a una brutta vecchiaia (sempre che ci arrivi - e non sto certo auguradogli la morte sia ben chiaro), fatta di ossessioni e di deliri di onnipotenza. Oltretutto dice tutto e il contrario di tutto, non legge (né ascolta) quello che dicono gli altri, gioca a fare la vittima (di chi poi?), l'incompreso, il genio maledetto. Francamente se ne potrebe fare a meno delle sue esternazioni. Magari se mettesse tanta energia nello scrivere qualche canzone che possa definirsi tale, saremmo tutti più contenti. E poi - una volta per tutte - perché non la fa finita di attaccare sempre Ligabue che, da gran signore qual è, neanche gli risponde? Ligabue sembra essere la vera ossessione di Vasco. Ma perché non si placa? Perché non pensa alla sua musica e alla sua vita?