Hungry hearts
Regia di Saverio Costanzo
Con Alba Rohrwacher, Adam
Driver, Roberta Maxwell
Ovvero quando diventare
madre diventa un incubo senza fine. È la storia di Mina, italiana
che vive a New York con un incarico che è tutta la sua vita, fino a
quando non incontra casualmente (nel bagno di un ristorante cinese
dove rimane chiusa con lui) Jude, se ne innamora e lo sposa. Nasce
il bimbo, ma quella stessa creatura, anziché portare serenità e
gioia, anziché essere quell'elemento aggregante che fortifica
ulteriormente una coppia e la rende più solida quasi fosse il
completamento naturale della coppia stessa, diventa con il passare
dei giorni ciò che divide e distrugge lentamente la storia, l'amore
e la vita di Jude e Mina.
In una New York “normale”
e anonima, lontana e fuori dai circuiti turistici e dalle immagini
patinate a cui siamo abituati (ottima, in questo senso, la scelta di
Saverio Costanzo – che NY evidentemente la conosce bene – di
ambientare la storia in un appartamento su Amsterdam Avenue e non nei
più affascinanti e conosciuti Greenwich Village West Side, Soho,
Tribeca per citare location più “cinematografiche”), va in scena
il disgregamento dell'amore di Mina e Jude e l'evoluzione della
follia della giovane donna (un'eccellente Alba Rohrwacher) ad opera
di un bambino altrettanto anonimo, di cui non sappiamo neanche il
nome, perché non viene mai nominato né chiamato dai suoi genitori.
Il piccolo diventa così una sorta di totem attorno al quale si
consumano le vite dei due protagonisti.
Mina è ossessionata dal
cibo, dall'inquinamento, dalle malattie, dai medici,
dalll'alimentazione, dai rumori, dal mondo e dalla vita stessa. Non
riesce a distaccarsi dal suo bambino e dalle sue paranoie, non ci
riesce perché non le percepisce come tali e si lascia risucchiare
senza mai opporre un minimo di resistenza in un vortice di follia e
instabilità che inevitabilmente la travolgeranno. Il suo bambino non
cresce, è denutrito, non esce mai di casa, non può vedere la luce
del sole, non può respirare l'aria esterna perché tutto è
pericoloso e dannoso per lui. È la vita stessa ad essere un
pericolo e un danno per il piccolo. Jude prova a ribellarsi, arriva
al paradosso di portare di nascosto suo figlio dal medico e a quello
ancor più allucinante di nutrirlo in una chiesa.
Ma è evidente che questi
sotterfugi per sfuggire alla follia della moglie e salvare in qualche
modo il bambino (e se stesso) avranno vita breve e così – in un
crescendo ossessionante di fobie e paranoie – la vicenda diventerà
sempre più inquietante, angosciosa, tragica: Mina perde la lucidità,
e l'affidamento di suo figlio, Jude perde l'amore e la fiducia di sua
moglie, la mamma di Jude (Mina è sola, ha perso la sua quando aveva
2 anni e suo padre è lontano, in Italia) perde completamente la
testa. Fino a che l'incubo ricorrente di Mina non si materializzerà
ponendo fine allo strazio.
“Hungry hearts” è un
pugno nello stomaco che fa vacillare tutte le certezze sulle gioie
della maternità, una botta sui denti diretta che amplifica e
ingigantisce a dismisura le ansie da depressione post-partum, è un
film angoscioso e angosciante girato con immagini brevi e nette
(alcune deformate per esaltare
la mostruosità di un'ossessione che non ha confini né limiti),
come fossero i frammenti di un quadro familiare che va in frantumi
pezzo dopo pezzo, lentamente e inesorabilmente. È il disgregamento
ineluttabile della storia d'amore tradizionale, dell'immagine
idilliaca che si ha (e che ci hanno voluto sempre dare) del
matrimonio. È un film che ti prende alla gola, ti inchioda alla
sedia e ti toglie il respiro scena dopo scena. È un film che non ti
lascia indifferente e ti fa uscire dal cinema con nuovi dubbi e una
diversa consapevolezza sulla maternità. Un film che farà
discutere, quindi, sostanzialmente, bello.
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